In una linea temporale più contorta di un nodo vaccaio (quella della serie The Conjuring, basata sulle imprese -vere o presunte- della coppia Warren -realmente esistita-), ecco che arriva il terzo capitolo dedicato alla terrificante bambola Annabelle. Nei primi due film i riflettori erano tutti puntati sulle sue origini, sui motivi della possessione demoniaca di un giocattolo che ha spoglie assai poco "mentite" e del suo potenziale maligno. Questo terzo lungometraggio invece ci proietta nella sua realtà di "carcerata" nella teca consacrata del piccolo macabro "museo" Warren (chiuso a tripla serratura) in attesa di un'occasione per "evadere" e sprigionare tutto il male in essa contenuto. La storia, scritta e diretta da Gary Dauberman (coadiuvato alla "penna" da Wan), parte molto bene, con una sequenza che potremmo collocare precisamente dopo il primo episodio di Conjuring (L'Evocazione), quando la medium Lorraine e suo marito Ed rinchiudono nella loro "stanza degli artefatti" la bambola infestata Annabelle. Scena piacevole e misteriosa che rispolvera la memoria e introduce nel proseguo degli eventi tanto lo spettatore preparato, quanto quello più smemorato o ignaro. Il messaggio è chiaro: la stanza degli artefatti non va aperta mai senza autorizzazione e men che meno la vetrina di Annabelle. Chi ha visto il trailer saprà esattamente quel che accadrà. Chi non lo ha visto può comunque intuirlo. È infatti questa seconda parte di film quella in cui tutto si svilisce e scorre inesorabilmente come qualsiasi mente potrebbe prevedere con un attimo di anticipo. I Warren partono per un impegno nel week-end e affidano la loro figlia tredicenne Judy (McKenna Grace -Captain Marvel, Tonya e Ready Player One- per citarne alcuni) a Mary Ellen (Madison Iseman) una premurosa giovane baby sitter. Al contempo, Daniela, un'amica di Mary Ellen assai invadente e dal carattere forte, incuriosita dalle chiacchiere sulla misteriosa professione dei Warren, convince la ragazza a farla entrare nella casa, attratta dai misteri dell'aldilà. La sua sconsideratezza metterà in pericolo la vita delle due amiche e quella di Judy. Ci sono diversi ingredienti (usuali) che compongono Annabelle 3; non mancano l'elaborazione del lutto, l'expendable pet, lo sviluppo a favoletta sentimentale e gli "scagazzi" quando il volume si abbassa lentamente per poi impennare con violenza, le coincidenze e i buoni sentimenti (manca un po' di cinismo). Del resto in questo casino temporale creato dal sequel del prequel con il terzo capitolo dello spin-off che, dopo un salto di lato uno indietro e uno avanti è arrivato pure a farsi citare nel film La LLorona, il polverone nel cranio equivale a quello di uno studente che deve risolvere un'equazione di secondo grado durante un concerto degli AC-DC. E allora Annabelle 3 si semplifica e si "renderizza" alle esigenze dello spettatore horror del 2019 (sempre meno di nicchia) che cerca proprio questo: il giro sulle montagne russe, il brivido che non duella con l'empatia. Il botteghino sorride. La produzione horror prospera "demineralizzata" ma "per tutti". Gli elementi orrorifici comunque ci sono (sfido io, in una casa con un museo demoniaco!) ma vengono buttati nella mischia confusamente come quando un allenatore che sta perdendo una partita inserisce attaccanti a casaccio nei minuti finali solo per far numero. Il film, dopo alcune interminabili sequenze non "sforbiciate" a dovere, si mantiene su ritmi di tensione accettabili. Quel che invece non ho trovato accettabile è il modo in cui Annabelle viene trattata dai suoi creatori, una comparsa nel film che avrebbe dovuto celebrarla. Un semplice vaso di Pandora ormai vuoto. Una porta. Bravi i protagonisti. Ipnotici nella loro carismatica magnificenza i coniugi Warren, discrete anche le ragazze anche se un tantino teatrali. Quel che resta è qualche spavento, un anello nella catena di questa fortunatissima serie ma anche un film troppo fiabesco (alla Barbablu), scaltramente "piacione" e con soluzioni penosamente "semplici" per lasciare un segno considerevole. Cara Annabelle, cari Warren e carissimo Wan, sappiamo tutti che potete dare molto di più e vi rimando al prossimo capitolo.
Scegliere è crescere.
Sbilanciarsi è andare oltre la garanzia del respiro
rischiando l'apnea.
Radici o gemme?
Brooklyn o Galway?
Scegliere è vivere,
a volte morire,
ma morire dopo aver vissuto è comunque vita.
Vivere senza scegliere è prigionia.
Atteso da due anni, La Llorona, ultima produzione del
ragazzo prodigio (soprattutto se si parla di horror) James Wan, fa
sorridere i conti della Warner ma lascia interdetti gli amanti del
genere. Preceduto da un bombardamento mediatico senza precedenti (almeno
per quanto riguarda gli spot You-Tube legati alla cronologia), il film
si rivela un impasto scialbo che inquieta e spaventa nulla più di uno
strillaccio alle spalle al buio. Non che non faccia sobbalzare, questo
no. Del resto le impennate di volume, seppur precedute da un silenzio
che le rende quasi scontate, nell'oscurità del cinema un certo effetto
ce l'hanno. Tuttavia, per un film strutturato su un'antica leggenda
sudamericana (che da decenni terrorizza i grandi superstiziosi e i più
piccini), quella della dama bianca che nel 'seicento annegò i suoi figli
nel fiume per punire il marito fedifrago per poi suicidarsi devastata
dal senso di colpa, mi aspettavo decisamente di più. Nulla della storia
resta "attaccato" alla pelle e tutto scivola via coi titoli di coda.
La trama è estremamente (decisamente troppo) semplice: Da tempi
lontani, ai fatti narrati (siamo a Los Angeles nel 1973) la maledizione
della Llorona (la donna piangente) colpisce i bambini. Chi avverte il
suo pianto è soggetto alla sua furia che si placherà soltanto con la
morte dei perseguitati. Storia decisamente difficile da credere per
un'atea e razionale assistente sociale di nome Anna (Linda Cardellini),
che male interpreta i segni di violenza e di tortura sui corpi dei due
figli di Patricia (una sua assistita), attribuendoli alla madre. Anna
(vedova e madre di due bambini) decide di denunciare il fatto alle
autorità, senza rendersi conto che sottrarli alla protezione della madre
li esporranno alla furia del malvagio spettro della Llorona.
Michael Chaves dirige questo horror "perdibile" in attesa di
riprovarci (spero in maniera più convincente) con The Conjuring 3. I
flash-back 'seicenteschi sono poco suggestivi, quasi amatoriali. Molte
situazioni sono discutibili, altre irritanti. Non c'è trovata che
etichetterà come "originale" o "geniale" una sola sequenza. Linda
Cardellini è brava (lo sappiamo) ma valorizzare questo canovaccio è
davvero un'impresa. Al suo fianco Raymond Cruz, nelle vesti di un
"eroico" e impavido curandero messicano diverte senza convincere. Un
viso noto agli amanti dell'horror è Tony Amendola (Annabelle, The
Devil's Candy) che riveste i panni di Padre Perez (omaggio ad Annabelle
forse unica cosa vagamente intrigante).
Non c'è una morale nel gesto della Llorona, così come il film ne è
privo. Non suscita paura per la sorte delle vittime, non lascia nulla di
diverso dalla noia. Ciò che lascia (di certo) è il portafogli privo di
qualche euro spesi per il biglietto che andranno ad arricchire la
produzione. 9 milioni di budget e 53 già incassati. Niente male sotto
questo aspetto.
Siamo nell'Inghilterra dei primi anni sessanta. Due novelli sposi camminano sulla spiaggia ghiaiosa di Chesil. Sono Edward (Billy Howle), neolaureato col massimo dei voti in storia e grande appassionato di rock e Florence (Saoirse Ronan),
talentuosa e ambiziosa violinista di quartetto. Li aspetta una cenetta
romantica nella loro camera d'albergo a pochi passi dal mare e la prima
notte di nozze. Dovrebbe essere idillio per i due, scrupolosamente
attenti alle regole morali prematrimoniali ed entrambi senza esperienza,
ma saranno goffaggine, ansia e disagio a pervadere l'atmosfera
romantica. La tensione accumulata porta Florence a confessare a Edward
la sua posizione riguardo al sesso. La rivelazione cambierà al vita di
entrambi.
Chesil Beach (2017): Saoirse Ronan, Billy Howle
Parte da qui -On Chesil Beach-, film d'esordio di Dominic Cooke,
tratto dal romanzo di Ian McEwan (che di questo film cura la
sceneggiatura). Una storia garbatamente romantica che si fa spazio a
piccoli passi al ritmo di musica classica e rock'n roll mostrando realtà
diverse della classe sociale inglese (lei benestante con genitori
spocchiosi; lui di famiglia modesta con la madre cerebrolesa) e
bellissimi paesaggi marittimi della celebre Chesil Beach di Dorset (lunga una trentina di chilometri).
Attraverso capriole temporali e flash-back lo spettatore vedrà
comporsi le storie parallele dei due protagonisti e gli sviluppi del
loro amore.
Chesil Beach (2017): Saoirse Ronan, Billy Howle Il sesso non è sentimento.
Quante volte abbiamo letto questa frase facendo distinzione fra
istinto e amore dell'essere umano. In -On Cheasil Beach- il concetto di
questa considerazione subisce un ribaltamento di prospettive, venendo
proposto allo spettatore come "il vero amore non ha bisogno del sesso".
Tuttavia le scelte di due giovani e le loro risoluzioni avventate
potranno essere messe in discussione dalla vita, quando l'età avanzata,
li porterà poi a tracciare un bilancio di ciò che è stato e ciò che
poteva essere.
Pregevoli le interpretazioni dei due protagonisti.
Un film come quei "puzzle" che per incantare necessitano di quell'ultima tessera incastrata al posto giusto.
Ed eccolo -On Chesil Beach- in tutta la sua elegante bellezza
raccontare attraverso sorrisi, delusioni e lacrime, le difficili scelte
che si fanno per orgoglio.
Non sarà un film che spicca per l'originalità (visto che affonda le
proprie radici narrative in quel "Cube" che mi affascinò e inquietò non
poco, anni e anni fa) ma questo Escape Room, sagacemente realizzato nel
periodo in cui queste stanze così "logicamente" enigmatiche spopolano
fra gli enigmisti, ha il suo perché.
La trama non è complicata:
per svariati motivi o differenti voglie di rivalsa, sei persone
decidono di partecipare a un gioco di logica che ha come obiettivo la
"fuga" da una stanza (apparentemente senza uscita). Le tensioni e le
fobie nell'ambiente ristretto e nelle condizioni estreme alle quali
verranno sottoposti faranno emergere la loro vera natura e li metteranno
in conflitto fra loro per la sopravvivenza.
Adam Robitel, "devoto" dell'horror (noto
soprattutto per aver diretto Insidious The Last Key) dietro la macchina
da presa, si dimostra capace (in questo) caso di dare i giusti ritmi
all'azione miscelando ansie, claustrofobie e fantasmi del passato fra i
personaggi di questo survival-movie. Lo "spettro" del ricordo e i vari
"scheletri" negli armadi compaiono al momento giusto scandendo le
debolezze e rivelando quello che è un disegno più grande proprio come le
dovute linee tracciate a penna farebbero coi puntini da unire. Coloro
che diverranno i protagonisti del macabro gioco ricevono un invito
all'Escape Room tramite un "rompicapo" a forma di cubo, forma geometrica
dell'enigma più celebre al mondo ideato dal geniale Ern? Rubik (idolo
al quale ho dedicato il mio nickname in questo forum) che diviene anche
un palese omaggio al sopracitato film anni novanta. Gli scenari sono
accurati e suggestivi e vanno a toccare il vissuto dei protagonisti
mentre le soluzioni da cercare sembrano create per sfruttare le abilità
fisiche e intuitive dei vari stereotipi, come sempre in questo genere di
film, ben assortiti (si va dal genietto alla soldatessa, dal nerd al
fallito in cerca di redenzione). Le vicende umane s'intrecciano alle
"penalità" del gioco, il battito accelera e l'ansia (mia come
spettatore) procede, empaticamente, di pari passo con quella dei
sopravvissuti in costante apprensione.
Il mio professore d'italiano mi raccomandava di chiudere sempre
bene un tema perché il finale è l'ultima parte che viene letta prima
dell'assegnazione del voto. Purtroppo Escape Room non cura questa parte. L'ho
trovato avvincente, quasi spossante (in senso buono), piacevole per tre
quarti, fino a quando alcune "forzature" prima dei titoli di coda (che
mi guardo dal rivelare) quasi mi costringono a sottrargli mezza
stelletta. La sceneggiatura paga il voler rivelare troppo e se è vero
che gli amanti degli enigmi esigono una soluzione alla fine, è altresì
vero che le soluzioni poco ingegnose banalizzano il piacere procurato
dal gioco. Il vecchio "Cube" lasciava un filo sottile d'ansia legato
proprio a quel finale così vago, indefinito e "maledetto" mentre Escape
Room "atterra" dalla sua impennata retrocedendo a film
d'intrattenimento, sicuramente piacevole anche se non memorabile.