sabato 19 settembre 2020

About "THE DEVIL ALL THE TIME" -Le strade del male-

 


 

Uscito soltanto in poche sale "selezionate" negli States e disponibile dal 16 settembre sulla piattaforma streaming Netflix (produzione originale), "The Devil all the Time" (tradotto in un debolissimo "Le Strade del Male" nella sua versione italiana) è uno psico-dramma che fonde spiritualismo, moralità e la "vocazione" naturale dell'uomo di tendere al "male", in una catena di eventi lugubri e violenti (a tratti disagevoli) degna di una pellicola dei fratelli Coen. Il film, diretto da Antonio Campos, presenta diversi schemi di montaggio (ellittico, discontinuo, connotativo), così come diversi sono i tipi di "male" rappresentati: fisico (il cancro), psicologico (traumi di guerra, bullismo, umiliazione), subdolo (la bugia, l'inganno sotto amichevoli spoglie) e la violenza (armata e non). Siamo negli anni cinquanta e all'interno di un'accuratissima spirale temporale ci viene presentato Arvin, figlio di un ex-marine di nome Willard (Bill Skarsgård) e di una cameriera (Haley Bennett). Willard, dopo aver perso la fede in seguito al trauma della guerra al fronte delle isole Salomone, cerca di riallacciare un legame con Dio attraverso un (progressivo) ossessivo ricorso alla preghiera. L'uomo forza anche il figlio alla devozione e lo educa spingendolo a non dimenticare i torti subiti dai bulli scolastici e ad attendere il momento giusto per vendicarsi. Come conseguenza del cancro che colpisce sua moglie, Willard diviene maniacale e perde il contatto coi valori terreni a fronte di una spiritualità che muta in un mostruoso e smisurato fanatismo. La poca lucidità causata dal dolore lo porterà a compiere azioni che cambieranno per sempre la vita di Arvin (Tom Holland interpreta Arvin divenuto adulto).
In parallelo (ma sempre in un'altalena spazio-temporale che troverà la sua quadratura solo nel "disordine-metodico" che conduce al finale) si sviluppano altre vicende come quella di Helen (Mia Wasikowska), donna "fedele" che si lascia ammaliare da un predicatore con manie di onnipotenza o di Lenora (Eliza Scanlen), la figlia che nascerà dalla conseguente unione dei due. Si narra inoltre la storia di Carl (Jason Clarke) e Sandy (Riley Keough), incontratisi in una caffetteria (poi divenuti marito e moglie) e con in comune la passione per una vita criminale fatta di adescamento, sesso e sangue. Che dire infine dell'untuoso reverendo Preston (Robert Pattinson), senza pietà nei confronti dei più umili peccatori ma assai solerte nel peccare a sua volta; dispensatore di acclamate "prestazioni orali" in chiesa (ma anche ben disposto a subirle di ben altro "stampo" in privato) e pronto a calarsi con sessuale devozione nei panni dello "spirito santo" con giovani e ingenue "pecorelle smarrite" lontano da luoghi sacri e sguardi indiscreti.
Insomma, il film caratterizza immediatamente bene i personaggi principali, rivelando poco a poco i dettagli delle vite di chi gli orbita intorno verso un inesorabile destino. Come in un Pulp Fiction o in Fargo, le storie s'intrecciano (puntini di un gioco enigmistico che vengono uniti) e il disegno più grande appare chiaro, indefinito solo nei tratti dove la razionalizzazione non riesce a giungere.
Qualche licenza poetica horror, Campos se la prende, inscenando gli atti finali di ogni vita che la "mietitrice" si prende con sangue freddo e caldo (talvolta con macabra ironia), tra sgomento e risate amarissime, in un contrasto di dolce e fiele metaforicamente simile alla marmellata della torta (così simile al sangue ma così saporita) spalmata sulla faccia del piccolo Arvin nel giorno peggiore della sua vita.
La religione della peggior specie, quella bigotta e repressa, si arroga il diritto di dettar legge morale predicando così così e razzolando malissimo. Stesso dicasi della legge, quella stellata dello sceriffo, altra persona double-face, veloce a premere un grilletto per proprio tornaconto. Sostanzialmente un film nel quale è il caso (vero Deus ex-machina) a farla da padrone. Per caso (un banale scambio di posto) s'incontrano Carl e Sandy ed è per lo stesso caso che Willard s'innamora di Sandy. Sempre il destino, da buon burattinaio, decide quale macchina ci darà un passaggio, quale secchio perderà l'equilibrio al momento sbagliato, quale rivoltella è caricata con proiettili veri. In questa suggestiva storia che mostra come il "diavolo" si annidi ovunque e sia sempre presente (anche nei migliori intenti), il male si rivela essere insito nell'essere umano (piccola o grande parte complementare) a prescindere da ciò in cui egli crede o dall'amore che sa dare.
Il cast ricco di grandi volti e di piccole perle emergenti (tutti davvero bravi) valorizza una storia disgraziata che assume valore nella maniera in cui ci viene proposta (voce narrante di D.R. Pollock, l'autore del romanzo ispiratore, è perfetta) e trova fondamenta nelle varie prospettive dei personaggi. Due ore e quindici minuti durante le quali il film continua, nel suo ansiogeno percorso, a "torturare" (in senso cinematografico) lo spettatore senza "sgasate" improvvise, rallentamenti o brusche frenate: ad accelerare e fermarsi sarà solo il respiro di chi guarda.


 

sabato 12 settembre 2020

About "THE VIGIL"

 

 


The Vigil è un film horror, prodotto dalla Blumhouse, che segna il debuto in regia dello sceneggiatore Keith Thomas. Le vicende in esso narrate ruotano attorno a una piccola comunità ebraica tra religione, superstizione e tradizione. L'usanza di famiglia è quella, a seguito di un decesso, di nominare uno shomer (che sia un amico o un parente) disposto a vegliare sul corpo del defunto con lo scopo di proteggerne l'anima durante la prima notte di lutto. Le persone sole possono ricorrere a uno shomer mercenario al di fuori delle loro conoscenze. Per questo, il rabbino Shulem ingaggia Yakov (giovane in cerca di cambiare vita, fragile, insicuro e bisognoso del denaro offertogli) per fare da "sentinella" all'anima del defunto Rubin. In casa durante la notte resteranno solo lui e l'anziana vedova (affetta da demenza senile). Non appena il rabbino li lascia soli, iniziano a risuonare nel piccolo appartamento rumori sinistri e ad accadere strane cose in un progressivo degenerare che renderà la nottata di Yakov ben più lunga di quanto avesse immaginato.
Una storia legata al folclore, mistica ed etnica che ha dalla sua un inizio (dapprima) un pizzico seducente, (poi) addirittura conturbante, ma che si smarrisce nei soliti luoghi comuni dell'horror moderno. Il film, pur giocando bene con i "conflitti" tra percezioni e realtà (grazie anche ai precedenti psichiatrici del personaggio di Yakov), prepara una buona struttura per un finale assai debole e "macchiato" da un semplicismo che non sembrava impossibile aggirare. Mentre la storia prettamente ebraica funziona bene, la parte più spaventosa s'ispira (forse copiando un pochino) a film come Oculus e Nightmare ed è presente una scena di un certo peso che nella "concezione" (non solo a me) ha ricordato l'altrove di Insidious. Da salvare sono l'idea dell'anziana con deficit cognitivo (che la rende una vera "mina" vagante nella sceneggiatura) e la fotografia a tinte calde e lievemente offuscate che rende angusti spazi chiusi e marciapiedi della periferia di Brooklyn. Nel mezzo, qualche Jump-scare (ormai il "covid" del cinema horror) e una piccola parentesi sentimentale (più o meno efficace) utile soprattutto a mostrare le fragilità di Yakov.
Non è un film da budget colossale ma credo ci si potesse impegnare un tantino di più.

giovedì 20 agosto 2020

About "GRETEL E HANSEL"

 

 

Oz Perkins, figlio del "real" Norman Bates, dirige il suo terzo lungometraggio restando fedele ai suoi temi prediletti (misticismo, esoterismo, gotico), sventrando una favola (già di suo macabra) dei fratelli Grimm. Le vicende di Hansel e Gretel e della casetta di marzapane che tutti abbiamo amato da bambini diventano "Gretel e Hansel" con un ribaltamento di gerarchie che non riguarda solamente il titolo ma focalizzano l'attenzione sulla ragazzina come vera protagonista. Le "fondamenta" del film sono composte da un prologo intenso e inquietante in cui lo spettatore viene preso per "mano" da una voce narrante e trasportato in un (non specificato) paese medievale "lontano, lontano". Una bambina, dopo essere stata salvata da una fattucchiera perché in pericolo di vita, inizia a manifestare percezioni extrasensoriali (e non solo) e viene per questo dapprima venerata per poi divenire vittima della superstizione e delle paure dei villani che la scacciano in seguito a strani accadimenti. In un altroquando, l'adolescente Gretel e il fratellino Hansel vengono minacciati di morte dalla madre (vedova, instabile mentalmente e ridotta alla fame) e costretti ad abbandonare la loro casa. Si ritrovano così a vagare per luoghi, boschi e dimore inquietanti alla ricerca di una nuova vita (e anche di loro stessi) finché stremati e vinti dalla fame, i due orfanelli accettano l'ospitalità di un'anziana signora estremamente gentile e accogliente (in realtà di una pacatezza inquietante, ma lo sappiamo già). La vechia apre loro la porta della sua casa in mezzo al (cupo) verde della foresta dove li aspettano un banchetto degno di un Re e molte, moltissime sorprese. 

In ritardo sull'ondata delle favolette dark che "sbocciarono" a seguire del fenomeno letterario "Twilight" (Cappuccetto rosso sangue, Biancaneve e il cacciatore -solo per citarne un paio), arriva questa fiaba "centrifugata" che fa un po' da risacca. Nessuno si aspetta sassolini bianchi o pane sbriciolato lungo il sentiero né tantomeno due bambini affamati e golosi che addentano pezzi di cornicione o qualche tegola, tuttavia il risultato finale è torbido, poco chiaro. Nello stravolgere eventi indelebilmente marchiati nella nostra memoria a lungo termine, non si fa quadrare il cerchio (o meglio, il triangolo). La giovane Sophia Lillis (It, Sharp Objects, I'm Not Okay With This), ormai consacratasi come Cinderella horror 2020, è bravissima col suo musetto lentigginoso e il suo taglio anticonforme al medioevo e alla sua femminilità a comunicare con il pubblico in sala. Si percepiscono bene, dubbi, responsabilità e paura. Tutto però prende una strada inattesa (i superpoteri vincono contro l'astuzia) e un "graffito" a vernice nera diviene un murales che prende via via colori eccessivi, non necessari. I punti interrogativi però (più di qualcuno) nessuno li cancella e la trama appare come un sentiero che la piccola Gretel sembra aver imboccato già dalla nascita (il cosidetto destino), facendomi riaffiorare dall'oblio February, dallo sviluppo molto simile e dalla medesima regia. Qualche spavento si sussegue (l'atmosfera è top e lo splatter pure) anche se alcune trovate, il buon Perkins, poteva risparmiarsele (i capelli che escono dalla bocca potrei citarli in una dozzina di film) ma non resta nulla di memorabile a parte i boschi dell'Irlanda. Insomma una mezza paccottiglia questo "Fairy tale-horror" anche viste le mie attese (prima nuova uscita post lock-down anche se girato due anni fa). Una riapertura in sordina delle sale che fa un po' da aperitivo al vero oggetto del desiderio che è Tenet, di Nolan, la prossima settimana. Non mancherò. 

 #GretelEHansel

#SophiaLillis  #OzPerkins

Cinerubik


lunedì 17 agosto 2020

FERRAGOSTO

 

 

Ferragosto di riso freddo e risa calde.
Noi, puntini bianchi tra coriandoli d'ombrelloni,
raccolti nel granducato della sabbia fresca.
Fragranze di braciola e noce di cocco
non dalla dispensa
ma da pelle umana.
Il cielo blu è un piano cottura.
"Sia gentile, vorrei un caffè, due gelati e una nuvoletta,
anche piccola".
La cassiera mi guarda.
Alla maschera chirurgica
preferisce l'ipocrisia di un sorriso.
Ciò che non si vede non si percepisce.
Ciò che non si vede e non si percepisce non c'è.
Il CoViD è all'estero in vacanza sulle isole greche,
dicono.
E Dio?
Pesci, meduse, granchi, paguri e razze.
Troppa vita ed è bello abituarcisi.
Alza il volume che me ne sto andando.
È ferragosto
ma non conta dove né quando:
conta insieme a chi.

 

                                               (Enrico)

       -fotografia tratta da Fantozzi Subisce ancora-

domenica 16 agosto 2020

About "WARM BODIES"

 

 

 

Lungo terreni battuti e cinematograficamente poco fertili (l'ennesima apocalisse zombie) passando per un cast "piacione" (Nicholas Hoult e Teresa Palmer), sbirciando (scopiazzando?) altre sceneggiature (Twilight) e omaggiando goffamente Shakespeare, nasce Warm Bodies, un lungometraggio diretto da Jonathan Levine che coniuga horror, splatter, azione e sentimento.
In un mondo con poche migliaia di sopravvissuti, gli zombies vagano senza meta alla continua ricerca di cervelli da divorare, tenuti a debita distanza dai vivi per mezzo di un enorme muro che impedisce loro di avvicinarsi alla residua civiltà. Continuamente vengono organizzate rischiose spedizioni per recuperare ogni risorsa dal mondo "zombificato" (alimenti, carburante e soprattutto farmaci) che espongono i volontari al rischio delle proprie vite. È durante una di queste sortite che Julie (Teresa Palmer) e R. (Nicholas Hoult) vengono a contatto. Egli, dopo aver divorato il cervello del fidanzato della ragazza e averne rivissuto i ricordi, inizia a dominare i propri istinti famelici e decide di salvare la ragazza da se stesso e dall'appetito dei suoi simili. L'unica possibilità per Julie è fingersi morta e seguire i consigli di R. per sopravvivere in un mondo pieno di insidie dove altro non è se non una preda. La convivenza porterà i due (volenti o nolenti) a (ri)conoscere le proprie diversità e a capire le esigenze l'uno dell'altra.
Un film talmente pop, che più pop non si può. Zombie e amore, come a proseguire la strada imboccata dalla Meyer con vamiri e lupi mannari (il film peraltro vanta gli stessi produttori di Twilight), che si avviluppano a una morale forse ridondante nel cinema (diversi ma uguali) lasciando spazio, negli accenni di distopia, anche a sottintese citazioni orwelliane (alcuni sono più uguali degli altri), vedi gli "ossuti" (il non plus ultra degli zombies), al cui confronto R. e i suoi simili paiono umani. La vicenda è raccontata da R. che nella sua filosofia Zombie si rivela fin dalla prima scena una "mosca bianca", un elemento pensante che cede ai propri istinti seppur consapevole di quanto questo non sia normale.
Carina la strizzata d'occhio a Romeo e Giulietta che salta alla mente ascoltando i nomi dei protagonisti (Juliet e R); un po' artificioso il ruolo dell'autoritario "signor Capuleti" interpretato da un redivivo John Malkovich al quale affibiano un cognome italiano (Grigio) e infine (ebbene sì) non poteva mancare la scena del balcone.
Il messaggio è dunque attuale (ritrito) ed è un monito di speranza per chi crede nell'integrazione. Non si fanno attendere azione e badilate di buonismo. Ci si aspetta ciò che accade e accade ciò che ci si aspetta. Divertente e appagante sotto certi aspetti ma pressapochista, banale e "too rushed" nel districare alcuni nodi essenziali, Warm Bodies è un film che non mi sento di consigliare agli amanti dei "Walking Deads" né a chi predilige trame con messaggi impegnati. 

 

 

 

Apprezzabile per i bei visi dei protagonisti (Hoult troppo figo per essere un cadavere in putrefazione) o per gli estimatori di Malkovich, il film è un prodotto commerciale con qualche trovata spassosa (le selezioni musicali top con Pretty Woman e With a Girl Like You) ma infarcito di luoghi comuni che s'incastrano come i pezzi del puzzle per ragazzini e lasciano quel senso di "povertà" di contenuti ma ricchezza di morale (comunque spicciola) più da fiaba che da film.



venerdì 17 luglio 2020

INCHIOSTRO SIMPATICO


Nello specchio
guardo il disegno che hai fatto.
I tratti indefiniti,
quelli marcati,
le imperfezioni che il tempo si diverte ad aggiungere
dopo che gli hai porto il pennello.
Mi volto e guardo il disegno che sei:
bambina, donna e di nuovo bambina.
Sempre uguale.
Pennarello indelebile per i tratti esterni.
Inchiostro simpatico per ricordi e cellule nervose.
Te ne vai da me a piccoli passi
mentre la scia si dissolve.
Forse uno stormo di uccellini ha mangiato le briciole
e nell'oscurità del bosco
non riconosci la strada di casa.
Non sei ancora un foglio bianco.
Non sarai mai un foglio bianco.
L'affetto trattiene il passato.
L'affetto è carta assorbente.
Me ne sono andato ma ci sono sempre stato.
Ti allontani ma ci sarai sempre.


                                                 Enrico    17-07-2020
                                                   (fotografia dal web)

lunedì 18 maggio 2020

About "STILL ALICE"




Alice (JULIANNE MOORE) è una brillante docente universitaria che tiene lezioni sullo sviluppo cognitivo e sulle neuroscienze. È benestante e ha una famiglia come ce ne sono molte, con piccoli problemi e qualche "grinza" stirabile. Il suo calvario inizia un pomeriggio, quando durante il suo allenamento di jogging perde l'orientamento, incapace di ricordarsi la strada di casa. Le viene diagnosticata una gravissima malattia degenerativa: il morbo di Alzheimer. A soli cinquant'anni Alice deve combattere il nero vortice che risucchia la sua memoria senza alcuna speranza di vittoria. La coppia Glatzer-Westmoreland, alla regia di STILL ALICE, offre una prospettiva focalizzata principalmente sulla protagonista della vicenda, non allargandola mai al resto della famiglia. Rarissimi, quasi assenti sono i dialoghi tra il marito di Alice (ALEC BALDWIN) e i loro figli quando lei non è presente e manca totalmente un punto di vista amicale. Detto questo, il messaggio che viene dal film è che la memoria non è semplicemente definibile come un insieme di ricordi, la memoria è la vita e perdendola non siamo più noi ma semplicemente un corpo. Da questa considerazione nasce il titolo STILL ALICE, che sembra un vessillo che sbandiera nell'animo della persona affetta da qualcosa di inestirpabile ma pronta comunque alla sfida; è il suo segnale di lotta: IO SONO ANCORA IO, Alice è ancora Alice. L'ampiezza del dramma seguendo la narrazione del film non si percepisce appieno, o meglio, distrugge e dilania a intermittenza la protagonista fino al suo ultimo residuo di consapevolezza ma non può (per scelta)  render nel miglior modo possibile l'idea dell'intreccio di dolore familiare che c'è dietro, della pena straziante causata dal vedere una donna ancora giovane "svanire", non riconoscere figli, dimenticare e dimenticarsi. La bravura della Moore è indiscutibile (il film le è valso l'Oscar) ed è l'innegabile valore aggiunto di un film che considero bello quanto incompleto. Non è soltanto la persona a "subire" la malattia ma anche tutti coloro che l'amano e non è la persona che pesa sui familiari ma la malattia stessa che s'impone sulla famiglia. Richard Glatzer, regista scomparso da pochi mesi a causa della SLA, ha voluto descrivere il vuoto, il sole e la tempesta che si alternano nel soggetto, solo nella propria casa, solo nel proprio mondo, estraneo ovunque. Un'idea, questa, che ho apprezzato (in parte) ma che non può raggiungere le radici di un'esistenza. Momenti di pura commozione e mai un sospiro di sollievo. Inesorabile è la parola che meglio può convivere nella stessa frase accompagnata a morbo di Alzehimer. Il corpo è lì, resta lì e ci sono ancora occhi da fissare, guance da baciare, per molte persone questo allevia il dolore, per altre lo amplifica e in questo film, a mio modesto parere, manca la loro voce.

(pubblicato anche come Cinerubik)

mercoledì 29 aprile 2020

About "PARASITE"






Non vorrei apparire bastian contrario frustrato (credetemi, non lo sono affatto) nell'esternare la mia parziale delusione allo scorrere dei titoli di coda di Parasite, diretto da Bong Joon-ho. Quattro statuette vinte agli Oscar 2020 (primo film in lingua non inglese a vincere come miglior film), la Palma d'oro a Cannes e migliaia di recensioni (Rotten Tomatoes, MYmovies, Ciak, ecc.) che palesano entusiasmo e apprezzamenti, non sono state sufficienti a conquistarmi. Prima che (come uno dei protagonisti del film) vi armiate di pietroni per lapidare il mio parere, ci tengo a sottolineare che non si tratta certo di un brutto film ma (mio modesto parere) non di quell'opera d'arte capace di destare, nei più, concupiscenza. Le sfumature nel cinema (non intendo quelle di grigio) hanno importanza e non sono solito etichettare un lungometraggio semplicemente come "gran film" o "spazzatura" senza vie di mezzo e (soprattutto) senza argomentare.

Partendo dunque da una rispolverata della trama, vado ad enumerare ciò che non mi ha convinto.
Si narrano le vicende dei Kim, famiglia sudcoreana (marito, moglie, figlio e figlia), costretti dalla disoccupazione a vivere per mezzo di un misero sussidio e qualche espediente (dal confezionare scatole per la pizza allo "scrocco" del wi-fi ai vicini) in uno scantinato umido e maleodorante. I due ragazzi (ottime menti) sono stati costretti a lasciare gli studi per l'indigenza ma la famiglia appare molto unita e legata da grande affetto. Un giorno, il maggiore dei figli, Ki-Woo, viene raccomandato da un amico per sostituirlo come insegnante di inglese presso i Park, una famiglia molto agiata composta da padre, madre, figlia adolescente e un bambino in età elementare. Alle dipendenze dei coniugi Park ci sono una governante e un giovane autista. Questo fa nascere nello scaltro Ki-Woo un'idea: nascondendo i legami di parentela coi suoi genitori, cercherà di farli assumere dopo aver fatto licenziare (con biasimevoli mezzi) i due inservienti, presentando inoltre la sorella (fingendola estranea) come un'esperta di arteterapia, perfetta per coltivare la passione per il disegno del piccolo Da-song.
Senza spoilerare, il film non è altro che un confronto fra ceti sociali ridondante di stereotipi dove ci si chiede continuamente se i "nodi" verranno o meno al "pettine". Un paio di scene suggestive, un discreto colpo di scena e una buona regia sono invece i pregi di questo pluripremiato film.

Apparentemente nulla di nuovo sul fronte "orientale" quindi, se si pensa che solo un anno prima, il bellissimo film giapponese "Un affare di famiglia" di Kore'eda Hirokazu, narrava proprio le "imprese" di un nucleo molto simile a quello dei Kim, continuamente a caccia di un piccolo "bottino" o di persone da raggirare ma tutte molto legate affettivamente tra loro. Inoltre, verso la fine degli anni novanta, il cinema giapponese con il celebre "Hong-Kong Express" e proprio quello sudcoreano, con "Ferro 3" (solo per fare due titoli ma la scelta è ampia) avevano già proposto sceneggiature riguardanti persone insinuate in case d'altri all'insaputa dei proprietari.
Ma veniamo alla domanda che sgorga spontanea quando si parla di un film come Parasite, per il quale il "vento" della critica entusiastica drappeggia compiaciuto la bandiera della "lotta di classe": Cosa s'intende per lotta di classe? Al giorno d'oggi non è certo quella "fisica" dei Greasers della 56a strada contro i Socials. Per alcuni è sfrecciare per la strada guidando una Ferrari, per altri è imbrattare i muri inneggiando la "morte" delle banche e dei "poteri forti", per altri ancora è sorseggiare un calice di Barolo con aria da intenditore e nondimeno lo è l'ostentazione della propria anarchia.
In questo film, il conflitto sociale è interamente racchiuso nell'odore della povertà, così inavvertito da chi ci sguazza dentro ma talmente insopportabile per chi non ne è avvezzo. "Hai presente l'odore che si diffonde quando fai bollire uno straccio sporco?" domanda il signor Park alla sua raffinata consorte. Quell'odore che soltanto il piccolo Da-song (con lo stesso coraggio sfacciato del fanciullo della favola che urla: "l'imperatore è nudo come un verme") definisce col suo nome: "puzza".

Mentre i coniugi Park, ligi al gioco delle parti, quell'odor di miseria lo menzionano con ipocrisia, convinti dell'assenza di orecchie indiscrete (che invece paiono essere ovunque). Ma non è la povertà a far da "etichetta" alla famiglia Kim, meno "parassita" di quanto dice il titolo (anche se in modo perverso, lavorano) e assai più canaglia.

I quattro impostori non calano la "maschera" dell'identità ma sanno rivelarsi per quel che sono dentro: arrivisti irriguardosi di coloro che "schiacciano" durante la loro scalata e assai poco magnanimi con chi elemosina pietà dal basso (che conoscono bene). Poveri sì, ma non di quattrini: di umanità. "Se fossi ricca sarei gentile" sostiene la signora Kim poco prima che le si presenti l'occasione (vana) di dimostrarlo.
E i ricchi? I ricchi, nella fattispecie i signori Park, non sono altro che la caricatura di creduloni fatti apposta per essere gabbati. Gente che rimpiazza collaboratori come soprammobili e si porta in casa chicchessia senza verificarne le credenziali. Sono le "vittime", i buggerati, eppure non viene da commiserarli. E siccome siamo in un blockbuster coreano (vi prego, il termine "film d'autore" non lo scomodiamo per questa guitta commedia pop-fusion) eccola lì, puntuale, la solita scena di sesso non funzionale alla trama, a "coronare" una sequenza fastidiosa coi soliti "intrusi" rannicchiati nei pressi, manco fossimo in un episodio di Friends.
Un blockbuster senza sangue? Direte voi. Il sangue arriva, state tranquilli, a dare forse quell'unico guizzo d'imprevedibilità di cui il film è davvero capace. In un crescendo di azione abietta contro reazione ancora più abietta, "Parasite" regala una ventina di minuti di livello quando le mentite spoglie di mediocre commedia "partoriscono" un ottimo thrilling.
Qualche emozione, qualche sussulto e un pizzico di sospensione della credibilità (segnali morse... ma dai!) in un finale comunque ben strutturato.

Mentre ancora mi domando cosa abbiano colto in molti che io non sono bravo a percepire, penso che un premio vinto non sempre sia frutto di una grande espressione cinematografica (o sportiva o musicale che sia) ma anche conseguenza della mediocrità dei contendenti. Personalmente non ritengo il 2020 un grande anno, per ora. In tutti i sensi.





domenica 26 aprile 2020

About "THE LIGHTHOUSE"



Robert Eggers, già regista dell'esoterico "The Witch", firma il visionario e onirico  "The Lighthouse", film sui disagi della solitudine amplificata e sui sottili equilibri psichici dell'essere umano.
La vicenda si svolge interamente su di una (non meglio identificata) isoletta canadese dove, verso la fine del 1800, sbarca un giovane di nome Ephraim Winslow (Robert Pattinson) con l'incarico di coadiuvare il veterano e intransigente guardiano del faro Thomas Wake (Willem Dafoe). I due, da consegna, resteranno isolati dalla terraferma per due settimane. La convivenza risulta da subito complicata nonostante l'abnegazione di Ephraim e il suo rispetto (a denti stretti) delle severe direttive impartitegli. Ha inizio tra i due un'alternanza disordinata di silenzio e sproloquio, armonia e intolleranza. Gli equilibri (e i nervi) del ragazzo vengono costantemente messi alla prova dall'isolamento e dai compiti degradanti come svuotare entrambi i pitali, sgorgare il pozzo delle acque putride o trascinare per chilometri una carriola sovraccarica di carbone lungo una strada sassosa e impervia. Soprattutto il perentorio divieto di avvicinarsi alla cima del faro, imposto da Wake al suo subalterno, viene maldigerito e sarà ciclicamente causa di conflitto.
Il giovane, barricato dietro la propria tenebrosa reticenza, osserva perplesso la bizzarra "relazione" feticistica che sembra legare il guardiano alla luce del faro e, in una spirale di "panico", visioni, onanismo, superstizione (galeotta fu l'uccisione di un gabbiano) e alcool, perde progressivamente la capacità di raziocinio, divorato dal desiderio irrefrenabile di raggiungere proprio quella luce interdetta.
Aragoste, teste mozzate, tentacoli, volatili guerci che reincarnano marinai defunti, baccalà rancido, donne con la coda di pesce e acqua al sapore di merda e piscio sono gli espedienti narrativi (sospesi tra tanto sogno e poca realtà) scelti da Eggers per trasporre questo racconto incompiuto di Edgar Allan Poe. Due "naufraghi" di poche parole brevi e taglienti che sanno diventare loquaci "lubrificando" i "condotti" sociali con superalcolici. La convivenza forzata di ognuno con l'altro e con il proprio io.
Una narrazione pretenziosa, una sciarada, un tuffo nel disagio grazie a un sonoro martellante, pioggia incessante e una sporcizia chiamata continuamente in causa, che conduce al geniale parallelo con il mito di Prometeo, colui che rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini (più per la macabra sanzione inflittagli da Zeus che per le analogie fra luce e fiamme).
È la nota storia della pallina che poggiata su un piano inclinato (non importa quanto) rotolerà sempre più velocemente verso il basso. Metafora che cinematograficamente, a simboleggiare un'inesorabile uscita di senno, sua maestà Stanley Kubrick rappresentò con un ascensore dell'Hoverlook Hotel in fase di discesa dalle cui porte sgorgavano ettolitri di sangue. Era la mente di Jack Torrance, piegata dalla stessa solitudine (nel film Shining).
Tanto più pesa il fardello che ci portiamo appresso, tanto più siamo deboli e fragili.
Eggers rinuncia ai colori freddi e ben "calibrati" usati in "The Witch" preferendo loro un bianco e nero dai marcati contrasti che rende nero e argenteo il mare nordico e "ammortizza" il disgusto per sangue, interiora ed escrementi. Personalmente ho ringraziato più volte col pensiero l'assenza di cromia. Il rapporto video (circa 4:3) è azzeccatissimo e trasmette quel pizzico di claustrofobia in più, tanto necessario quanto affascinante.
Applausi a scena aperta, quindi, per la fotografia (geniale e d'altri tempi) ma non dimentichiamoci delle interpretazioni degli attori, davvero bravi a comunicare prima col viso poi con le parole.
Una piccola perla di film, capace di farmi sentire "stranito" (ma forse il termine giusto sarebbe "freaked out", come dicono gli anglosassoni) in un periodo in cui troppe volte il cinema lascia indifferenti. Dopo la visione mi sono sentito come al terzo calice di vino assorbito via wi-fi ed è appunto dopo un bicchiere di buon rosso che ho deciso di scrivere queste righe (la sobrietà totale non ha voce in capitolo). "The Witch" mi lasciò perplesso; "The Lighthouse" mi ha lasciato perplesso ma appagato.
   

Enrico Bonifazi