sabato 22 settembre 2018

About "UN AFFARE DI FAMIGLIA"



È trascorso oltre mezzo secolo dal cinema muto di Yasujiro Ozu che raccontava di famiglia e lavoro nella società giapponese. Il cinema nipponico però continua a brillare nei temi sopracitati (che noi europei amiamo tanto) e prova ne è l'ennesimo RE-title di questa nuova opera del sagace Hirokazu Kore'eda, in patria letteralmente "Taccheggiatori" translato in "Un affare di famiglia" (come accadde al suo "Ritratto di famiglia con tempesta" tradotto dall'originale "Più profondo dell'Oceano). Non che sia uno specchietto per allodole comunque questa traduzione selvaggia poiché di famiglia realmente si parla. Il film, infatti, mette in luce uno dei significati meno utilizzati (ma pur sempre appropriato) della parola famiglia che, nel caso specifico, non comprende legami di sangue o DNA ma solo un complicato equilibrio di dare e ricevere con affetto e opportunismo all'interno di un nucleo sociale. 

Osamu è un uomo di mezza età, un "balordo" dai buoni sentimenti che vive di espedienti, lavoretti saltuari e, soprattutto, utilizza il furto in maniera sfrontata e assidua in compagnia del piccolo Shota. I due condividono un piccolo e umile appartamento con Nobuyo (la compagna di Osamu), la bella Aki e l'anziana Hatsue.
Tra le minuscole e polverose stanze, sovraffollate e congestionate da una suppellettile disordinatissima, regnano armonia e felicità. Un solido legame di affinità e reciproci bisogni, che neppure gli stenti e le difficoltà riescono a ossidare, fa da armatura ai rapporti tra conviventi. 
Quando Osamu e Shota, di ritorno dalla "spedizione" furtiva in un market, s'imbattono nella trascurata e infreddolita Yuri (una bambina seria e silenziosa), non esitano a rifocillarla e darle ospitalità. Dopo aver scoperto che i genitori naturali della bambina sono violenti e incuranti, Nobuyo decide di non riportarla a casa e di accoglierla nella loro famiglia.

Il film solleva un tema vecchio ma sempre attuale Una madre è solo colei che partorisce? e pur non fornendo verità oggettive sa innescare numerose riflessioni sugli affetti e sul fatto che (naturale o meno) la famiglia non si sceglie.
L'ambientazione giapponese (così densa di stress e di fascino) non deve ingannare su quanto lontana sia la questione (basta pensare agli eterni dibattiti sulla famiglia ogniqualvolta si leggifera sui diritti) ma focalizza l'obiettivo sull'affetto, spesso grande seppur proveniente da un pessimo esempio di soggetto civile.
La fotografia retrò rende tutto più "domestico" e reale anche se a tratti sembra farti perdere il filo del "quando".
Per quasi un'ora mi sono interrogato su trama e target del film, poi le congiunzioni si fanno più chiare. I segreti (anche macabri) venendo alla luce riordinano una storia di grande umanità che prende forma nei sobborghi più poveri per mostrare a me, spettatore, la grande fatica dell'affrontare positivamente (ogni giorno) la drammaticità della vita.

Palma d'Oro a Cannes meritata.

Enrico Bonifazi (Cinerubik)

mercoledì 28 febbraio 2018

About "LADY BIRD"




Greta Gerwig, si piazza dall'altra parte della macchina da presa per dirigere (dopo averlo scritto) Lady Bird, film premiato ai Golden Globe 2018 con due statuette (categorie "commedia o musicale" e "attrice protagonista") che vanta anche cinque nominations agli Oscar.
La frizzante commedia che rasenta talvolta il piccolo dramma esistenziale, racconta il disagio sociale di Christine McPherson studentessa diciassettenne desiderosa di smuovere il suo status quo, "presa in trappola" tra il liceo cattolico che frequenta, un padre depresso, un fratellastro inconcludente, una madre intransigente e  (come un estintore sulla fiamma accesa) sempre pronta a insinuare sensi di colpa sulla sua voglia di sognare e di "volare" via; di migrare da una città, Sacramento, che ella sa amare e odiare al tempo stesso; volare via come l'uccello (bird) con il quale si ribattezza da sé (Lady Bird) per spogliarsi da quel "religioso" Christine che le hanno "affibbiato" i genitori.

Saoirse Ronan
Lady Bird (2017): Saoirse Ronan

Professore: "Christina"
Lady Bird: "Lady Bird"
Professore: "Is that your given name?"   -trad- "È il tuo nome di battesimo?"
Lady Bird: "yep" -trad- "Sì"
Professore: "Why is it quote?" -trad- "Perché è scritto virgolettato?"
Lady Bird: "Well, I gave it to my self, it's given to me by me" -trad- "Già, me lo sono dato io, battesimo per me da me"



La Gerwig, dunque, "impiatta" sentimenti adolescenziali in verità non nuovi a trasposizioni cinematografiche riuscendo però a trovare quella combinazione d'ingredienti che appetiscono, sfamano, appagano in un film che sa parlare chiaramente i complessi linguaggi dell'età studentesca e della crescita. Lady Bird, "svolazza" di ramo in ramo nell'indigesta realtà del "lato povero dei binari" (frase da lei pronunciata che pare metafora ma è realtà) che sa di poter abbandonare solo (apparentemente) fingendo di essere quella che non è cioè vestendo i panni della ragazza benestante e spregiudicata in cerca di popolarità oppure (realmente) riuscendo a farsi accettare in una qualunque tra le tante università della costa orientale alle quali ha fatto domanda, contro ogni possibilità economica sostenibile, all'insaputa della madre.

Saoirse Ronan, Beanie Feldstein
Lady Bird (2017): Saoirse Ronan, Beanie Feldstein

Oltre ai sogni di affermazione e ribellione, nella sua vita trovano spazio l'amicizia vera e quella d'opportunismo, la scaltrezza e l'invidia, rabbia, comprensione, insubordinazione e (più per curiosità che per malizia o passione) le prime scoperte sessuali, tutti sentimenti capaci di forgiare in lei un carattere forte e fiero. Con il pesante fardello dell'insoddisfazione e sbandierando i suoi diciotto anni come un trofeo, Lady Bird tenterà di spiccare il suo volo più ampio, verso la realizzazione e un'età adulta da amare e non più da sopportare, lontano da Sacramento per poi ricordare con affetto e malinconia i quartieri e la casa nella quale avrebbe desiderato vivere e (a distanza) ricucire il rapporto con la madre e con la propria famiglia.

Saoirse Ronan, Laurie Metcalf
Lady Bird (2017): Saoirse Ronan, Laurie Metcalf

Il forte impatto narrativo si regge per gran parte sul valore degli interpreti come le bravissimeSaoirse Ronan (Christine -Lady Bird-) e Laurie Metcalf (la signora McPherson) oltreché sulla sagacia della director (eh già, servono davvero più prospettive femminili nel cinema!) che "pillolizza" alcune scene impedendo alla noia di metter radici e riesce a essere esaustiva al tempo stesso. Il montaggio è infatti un'autentica chicca con repentini cambi di scenario una volta che il concetto è stato espresso senza enfatizzare nulla ma curandosi che il pubblico assimili bene ogni evento. Ne è un chiaro esempio, all'inizio del film, il battibecco in automobile madre-figlia nella sequenza che precede i titoli di testa, al termine del quale la ragazza compie un gesto estremo che non viene successivamente rimarcato se non tramite l'eloquente traccia di un pennarello sul gesso. La narrazione è questa, fatta anche di scritte furtive sui muri, dettagli inanimati ed espressioni facciali semplici da codificare.

Una curiosità riguarda Lucas Hedges (nella foto insieme alla regista), che interpreta lo studente Danny, dal quale è attratta Lady Bird: Lucas ha fatto da spalla ad Affleck in Manchester by The Sea (ricevette anche lui una nomination come supporter) e l'ho visto appena ieri in Tre Manifesti a Ebbing, Missouri accanto a Frances McDormand (nomination 2018) oltre a questo film (la Ronan nominata); devo dire che il ragazzo seleziona bene i suoi ruoli e (a quanto pare) valorizza chi affianca niente male.

Greta Gerwig, Lucas Hedges
Lady Bird (2017): Greta Gerwig, Lucas Hedges

Soirse Ronan è nuovamente alle prese (come due anni fa nel bellissimo "Brooklyn") con l'esigenza di lasciare "casa" contrapposta alla malinconia del distacco, situazione capace di far gemmare nel suo personaggio numerosi stati d'animo in contrasto tra loro e dopo averne apprezzate l'evoluzioni, mi sento di consigliare vivamente la visione di questa "metafora" dell'uccello che deve migrare per sopravvivere ma che poi, guardando indietro da lontano con diversa prospettiva, troverà sempre un modo per capire qual è il momento giusto per tornare e dare un significato al proprio volo. Non esiste una strada che non implichi scelte e rimpianti. La vita per Lady Bird è un costante avanzare verso le grandi aspettative e il sogno di autonomia.

Enrico Bonifazi (postato su FilmTV.it)

domenica 21 gennaio 2018

About "THE MIDNIGHT MAN"



I film horror solitamente necessitano di mente aperta e sospensione di credibilità/realtà che di fronte a un prodotto ben realizzato dal quale consegue buona empatia dello spettatore, diventano caratteristiche prescindibili. Non è il caso di THE MIDNIGHT MAN, diretto dal Travis Zariwny (quello del reboot di Cabin Fever), che sfrutta una vecchia leggenda statunitense, quella dell'uomo di mezzanotte, per imbastire un horror che pur avvalendosi di due mostri "sacri" del cinema horror come ROBERT ENGLUND (il mitico Freddy Krueger anni '80) e LIN SHAYE (salita alla ribalta con la serie di INSIDIOUS e con OUIJA) finisce per non convincere MAI, per quanto ci si possa sforzare.


La trama ricorda una versione horror di Jumanji (che per una strana coincidenza è uscito contemporaneamente nelle sale)  con candele e una serie di regole da seguire per evocare l'uomo di mezzanotte, col quale poi iniziare un tetro gioco di sopravvivenza che prevede regole da rispettare con rigore, pena la morte (la quarta regola NON ADDORMENTARTI MAI, visto che il gioco dura poco più di tre ore, rivela già una certa superficialità). In ogni sua parte il film risulta rivedibile, dalla prima all'ultimissima scena, col montaggio che dimentica (volutamente?) di chiarire alcune situazioni che affiorano "stroboscopicamente" nei numerosi flashback. Ci si trova così ad assistere piuttosto insensibilmente ad eventi che scorrono piuttosto slegati e incomprensibili come morti violente, piogge di sangue, suicidi, animali sgozzati, senza un vero legame emotivo (nessuna spiegazione, ad esempio, per la morte di un coniglietto domestico). L'uomo nero di turno, svelato in maniera schietta e precoce (per la cui espressività viene rispolverata la distorsione vocale di Jigsaw) pare inizialmente un "burattinaio" sadico alla "vorreiesserKrueger" ma diviene inefficace e poco credibile via via che ogni dettaglio delle sue sembianze viene focalizzato. Il tutto viene "condito" da dialoghi poco curati della serie "buona la prima che si risparmia tempo" (vale per scrittura e recitazione) che i protagonisti cercano di rendere attuali e fluidi (impresa più impossibile che ardua). Nella "scialba zuppa" galleggiano a fatica anche Englund e la Shaye, il primo a causa di una teatralità che nulla ha a che vedere con il cinema (un esempio ne è la sua apparizione a sangue freddo sul divano nel bel mezzo del dramma) e la seconda a causa della davvero insensata ambiguità del suo personaggio.


I due ragazzi giovani (GABRIELLE HAUGH e GRAYSON GABRIEL), palesemente incapaci di barcamenarsi con una sceneggiatura simile a un colapasta che fa acqua da tutte le parti, anzi a fessure talmente larghe da non poter trattener nemmeno la pasta, in questa minestra ci annegano goffamente, inscenando atteggiamenti e reazioni totalmente fuori dalla realtà (merita menzione anche la pettinatura anni novanta di Gabriel.


 Un film che aspettavo come la punta di diamante horror della Adler Entertainment ma che cercherò di dimenticare più in fretta possibile. Sono uscito dal cinema delusissimo. Prodotto dozzinale che nonostante tutto, facendo leva sugli appassionati del genere, al botteghino farà la sua parte.
Io ci sono cascato con tutte le scarpe.

Enrico Bonifazi