giovedì 16 novembre 2017

About "AUGURI PER LA TUA MORTE"




Quando (specialmente in campo scientifico) ci si concentra verso un obiettivo ma per forza o per caso se ne consegue un altro, non necessariamente insignificante o minore ma semplicemente diverso, si utilizza il termine (che amo moltissimo) serendipità. Dev'essere stato proprio in forza di  serendipità se io, recandomi al cinema per vedere l'horror "Auguri per la tua morte" (incuriosito dal "blasone" Blumhouse), mi sono trovato ad apprezzare la pop-horror-remix-comedy "Auguri per la tua morte".

La protagonista è Tree (Jessica Rothe), una giovane, spregiudicata, bella e odiatissima studentessa di college che dopo i postumi di una sbronza si sveglia, il giorno del suo compleanno, in un dormitorio maschile, nella camera di un ragazzo sconosciuto di nome Carter (Israel Broussard) dal quale si congeda con freddezza e cinismo. Al termine di una giornata utile soprattutto a far capire allo spettatore quanto Tree sia spietata nei rapporti con le persone che frequenta (sorellanza, compagna di stanza, amante, spasimanti e perfino col padre) un killer misterioso la segue e la uccide in modo spietato. Dopo il suo assassinio il risveglio sarà per lei nella stessa camera di Carter, nel medesimo giorno e accantonata la speranza di trovarsi a fare i conti con un improbabile dejà vu, la consapevolezza non può che essere quella di essere intrappolata in un incubo che si concluderà inesorabilmente con la sua morte nel giorno che celebra la sua nascita. Da sola dovrà cercare di sopravvivere per giungere finalmente al domani.

Il film prende più di uno spunto dal bellissimo "Ricomincio da capo" omaggiandolo strutturalmente, implicitamente e talvolta palesemente (come nel dialogo in cui Carter scherzando dice a Tree che si deve vergognare per non avere mai visto un simile capolavoro e di non conoscere Bill Murray). L'idea di ambientare un film in uno spazio tempo che è una sorta di disco rotto non è certo una novità ed era stata ripresa in passato più di una volta da film come "Source Code", "100 volte Natale" o il recentissimo dramma "Prima di domani" ma per quanto riguarda l'horror non mi sovvengono precedenti significativi (segnalazioni eventuali sarebbero gradite). Bisogna però fare una distinzione tra il diverso peso specifico che hanno il viaggio introspettivo di Murray nel giorno della Marmotta e il percorso d'individuazione della giovane Tree; i due personaggi pur avendo in comune, inizialmente, un cinismo che spesso sconfina nella perfidia, giorno dopo giorno  s'indirizzano verso un atteggiamento più "umano" nei confronti del mondo impossibilitati di cambiare tempi e avvenimenti.

In "Auguri per la tua morte" tutto è raccontato con un linguaggio giovane e talvolta volgarotto ma caratterizzato da grande autoironia. Ben presto ho capito che l'horror che pregustavo era un timballo di generi e citazioni tra le quali i sentimenti trovano più luce di scena del sangue. Mi sono tornati in mente vecchi film "impolverati" come Schegge di Follia e le terribili Heathers ma anche le atmosfere di Scream. È stato proprio Tony Gardner infatti (lo stesso ideatore della maschera del killer di Scream) a partorire il volto da baby-psycho che nasconderà fino all'ultimo l'identità dell'assassino di Tree.

I differenti atteggiamenti della giovane nei confronti degli avvenimenti che le accadono intorno e che via via lei impara ad affrontare sempre in modo diverso sono la parte divertente del film che si mantiene godibile nonostante alcuni anelli deboli nella trama e alcuni eccessi. Non essendo un'opera pretenziosa ma di puro intrattenimento mi viene spontaneo soprassedere su " weaknesses" che in effetti ci sono, come c'è un po' di tutto in questo film-remix, dal personaggio che rasenta il nickelodeoniano a ogni tipo di stereotipo da campus. Jessica Rothe (l'abbiamo vista cantare frammenti di Someone in the crowd in LaLaLand di Chazelle) ci mette del suo con una buona espressività e un physique du rôle ottimo. Israel Broussard (se la cava bene nei panni del goffo e gentile Carter) era co-protagonista in The Bling Ring della Coppola. Nel cast è presente anche Ruby Modine, figlia di Matthew. Il regista di questo film è Christopher B. Landon che proprio non conoscevo (la sua è una filmografia davvero di poco peso) ma devo ammettere che è stato bravo nel perpetuare senza annoiare il ripetersi degli eventi grazie anche a diversi espedienti creativi nell'atto della morte che si fonde coi risvegli.

Auguri per la tua morte non è un film adatto a tutti perché necessita di accettazione incondizionata al cinema a 360° per essere goduto (goduto non certo celebrato) per quel che è e cioè un film pienamente sufficiente che sta riscuotendo un discreto consenso tra gli spettatori e che, se non è stato in grado di spaventarmi come avrei sperato (vabbé, passi qualche jump scare), ho trovato comunque avvincente nelle sue evoluzioni ma soprattutto divertente.
Quasi dimenticavo, nota di biasimo per una locandina davvero poco accattivante. 

 Enrico Bonifazi

sabato 14 ottobre 2017

About "MADRE!"





Non sono state SOLO le mentite spoglie di horror, né questo suo essere il film più chiacchierato dell'anno ad avermi spinto alla visione di "MADRE!"; è che a me Il CIGNO NERO (ad eccezione forse dei minuti finali) è piaciuto molto e nonostante il clamoroso scivolone di Noah, ero curioso di vedere trasposta la voglia di Darren Aronofsky di far rivalere la propria arte. Mai come questa volta le mie attese sono state deluse. Avevo letto dei fischi ricevuti dal film all'ultima Mostra del Cinema nonchè delle pesanti critiche ad uno dei tanti posters promozionali dove la protagonista Jennifer Lawrence è raffigurata con lividi e tumefazioni al volto e il tutto mi era parso sagace opera promozionale visto che ha contribuito ad incuriosirmi. Poi ci si sono messi CinemaScore assegnando a "Madre!" una F (il punteggio più basso) che in pochi altri si erano "guadagnati", oltre al palese omaggio alla locandina di "Rosemary's Baby", a spazzare via ogni mio dubbio spingendomi al cinema. Ad onor del vero vanno sottolineati anche numerosi illustri apprezzamenti di critici statunitensi da me seguiti oltre alle belle recensioni di utenti di FilmTv che stimo e apprezzo come Supadany e Amandagriss. Si torna quindi alla "bellezza negli occhi di chi guarda" ma nel caso specifico non sono stato in grado di guardare oltre il mio naso e scovare alcun pregio se non il fascino indiscusso di Jennifer Lawrence e qualche strascico di atmosfera capace di inquietare e intrigare fino al sopraggiungere di quel "tornado" farsesco, capace di spazzare via ogni minimo interesse in eventuali risposte, nella seconda parte di proiezione. Aronofsky si affida a bravi attori come la Lawrence e Javier Bardem che alle prese con una sceneggiatura "circolare" interpretano una coppia alle prese (LEI) con la ristrutturazione globale di una imponente casa in legno persa in una spianata all'interno di un bosco indefinito e (LUI) con il blocco dello scrittore (e quello di mezza età). Dopo un incipit "prologo" promettente e ad effetto, dove sullo schermo appare il volto di una donna che non riesce a trattenere una lacrima mentre arde tra le fiamme, la vicenda ha inizio. Tutta la narrazione è rinchiusa tra le mura della grande e spaziosa villa e l'esterno è visto solo da una prospettiva interna (finestre e porte aperte) o rare riprese panoramiche. L'equilibrio di coppia scricchiola almeno come le tavole di legno che rivestono i pavimenti in una sinfonia di cigolii e passi soffocati di piedi scalzi che rappresentano la pressochè unica colonna sonora del film. A complicare la situazione della coppia ci si mettono alcuni ospiti seccatori e invadenti il cui arrivo pare esaltare il poeta (Bardem) e mandare totalmente fuori fase la sua giovane consorte (Lawrence) con il loro atteggiamento poco rispettoso per la loro intimità e nei confronti della loro abitazione. Durante questa fase, Aronofsky è abilissimo a creare un'atmosfera cupa, intrisa di un mistero fatto di dettagli e sfumature, che lascia percepire attraverso la prospettiva della sola Jennifer. Indescrivibile l'empatico senso di disagio e fastidio per l'intrusione che si è insinuato in me durante la visione (ottimo lavoro fin qui). Purtroppo si arriva poi al bivio tra il salto di qualità e il decollo della trama ma il risultato è quello di un clamoroso schianto al suolo. Si entra nel grottesco e tutto diviene farsa. Si perde progressivamente interesse in ciò che concupivamo nel film e la tentazione è quasi quella di voler abbandonare la sala. Lo stuzzicante film spiraloide si trasforma in un tornado che vorticando risucchia tutto e tutto disintegra in una confusione da trincea, da non distinguere nemmeno più la notte dal giorno e che non avrei modo di descrivere se non con le parole caos e farsa. Ho pensato "ditemi che è uno scherzo". Il finale, di facile intuizione già verso i tre quarti dello "strazio" ricuce lo strappo aperto dall'incipit e rimane solo la cicatrice di una brutta opera, un "d'autore" commerciale incapace di credibilità fin dai più piccoli dettagli. Un'ansiosa (e tuttavia dignitosa) Lawrence che percorre la casa in lungo e in largo (en déshabillé) nel tentativo di proteggerla, un Bardem bravino ma poco incisivo e dall'equino muso lungo (pure doppiato in maniera poco convincente) che si destreggia con goffaggine in un copione che fa acqua come un colapasta che non è in grado nemmeno di trattenere la pasta oltre a una serie di comparse illustri come un ottimo Ed Harris, una Michelle Pfeiffer con le labbra a 2 atmosfere (brava anche lei), uno spaesato Domhnall Gleeson e una Kristen Wiig impacciata, avrebbero potuto rappresentare forse l'unico pregio di un'opera volutamente fuorviante e capace di distinguersi solo per via dei suoi irritanti eccessi. MADRE! s'illude di poter nascondere la propria "debole" filosofia dietro a un pacchiano esoterismo, a qualche scena di cattivissimo gusto (vabbé, ci potrebbe anche stare) e a una grande, immensa, indescrivibile confusione ma quel che emerge dal calderone non è certo una risposta illuminante ma una disarmante sciarada cinematografica.
A volte una brodaglia è solo una brodaglia.

                                                                                                                                 Enrico Bonifazi
                                                                                                        

About "JUKAI" -La Foresta dei Suicidi-





Jukai -La Foresta dei suicidi- traduzione italiana del titolo originale e assai più discreto "The Forest" è un horror psicologico che prende spunto dalla macabra fama della Foresta di Aokigahara (oggetto due anni fa del film di Gus Van Sant "La Foresta dei Sogni").

La regia è di Jason Zada, celebre soprattutto negli States per qualche videoclip musicale e varie sceneggiature televisive, oltre all'esser stato programmatore di videogames per Commodore 64 quando era poco più che un ragazzo.

La campagna mediatica che ne ha preceduta l'uscita non ha rispettato le "promesse" con la sala più vicina situata a oltre 40 km dalla mia residenza nel bolognese. Sembrava comunque valerne la pena sia per il trailer davvero ben allestito sfruttando appieno la sinergia tra l'indole horror giapponese e la storia (assolutamente vera) della tristemente celebre foresta di Aokigahara alle pendici del monte (vulcano) Fuji. In questa foresta a partire dagli anni '60 (per motivi apparentemente legati alle vicende romantico/drammatiche narrate in un vecchio romanzo) si verificano ogni anno almeno un centinaio di tentativi di suicidi dei quali circa 30/35 vengono portati a termine. Questo ha spinto le autorità locali a organizzare ronde e servizi di vigilanza per individuare soggetti con tendenze suicide prima che s'inoltrino nella foresta e per recuperare i cadaveri in mezzo alla fitta vegetazione. Aokigahara è inoltre circondata di cartelli in varie lingue che invitano a rivolgersi a psicologi in caso di problemi e di slogan atti a fermare e a far desistere ogni aspirante suicida.

Nonostante le ottime premesse e quell'attingere alla verità che nel cinema non guasta mai (anche perché impossibile è sapere quanto del reale il film resti intriso) Jukai rimane un prodotto piuttosto scialbo e inconcludente che non convince nell'insieme. Qualcosa di buono c'è ma deboli collegamenti e mancati approfondimenti oltre a qualche banalità ne disperdono il valore intrinseco strada facendo.




La protagonista è Sara (interpretata dalla Natalie Dormer de "Il Trono di Spade") una ragazza americana dall'infanzia traumatica che spinta da una sorta di "twin telepathy " si reca in Giappone alla ricerca della sua gemella Jess, vista entrare sola nella foresta di Aokigahara e da tutti (ma non da lei) creduta morta. La trama è tutta in queste poche righe e la ricerca di Jess all'interno di una foresta apparentemente capace di alterare le percezioni e la volontà delle persone, coinciderà per Sara al confronto con avvenimenti della sua infanzia. Uno psico-horror non troppo diverso (malgrado le iniziali divergenze) da film come il recente The Bye Bye Man o il più remoto Shrooms (col il tarlo del "mostro" mentale che sferra morsi via via più famelici) ma avvantaggiato da un'ambientazione davvero suggestiva (Jukai in giapponese "significa letteralmente mare di alberi" spiega un'esperta guida orientale in una scena del film). Tuttavia proprio il paesaggio boschivo talvolta si ritorce contro il pathos a causa delle numerose scene diurne, luminose e poco coinvolgenti e una fitta vegetazione che a tratti trasmette quasi sollievo. Ben più efficaci le riprese notturne che comunque non riescono a trasmettere il senso di smarrimento (credo) voluto. In definitiva uno dei tanti horror che tra qualche anno non ricorderemo più se non per un finale confezionato bene (non benissimo), qualche estemporaneo spavento e la triste affascinante fama della foresta di Aokigahara. Ultimo appunto sulla locandina italiana, graficamente eccessiva e priva di fascino a differenza di quella statunitense. Ma perché (???) mi domando.



 (Enrico Bonifazi) 
Foto da FilmTV.it

mercoledì 31 maggio 2017

LA LUCERTOLA





Me ne sto con il viso al sole
e lo sento scorrere in me.
C'è una lucertola
immobile a pochi passi.
Se avanzo fuggirà via
e un po' invidio quel suo istinto così sfacciato,
quel continuo nascondersi dagli uomini,
tutti quanti,
buoni o cattivi che siano.
Lei non maschera le proprie paure,
codarda solo all'apparenza,
invece sincera, spontanea
e ben più coraggiosa degli uomini,
tutti quanti.


Enrico Bonifazi
(Immagine tratta da un dipinto di Alfredo Perrotti)

lunedì 24 aprile 2017

FRANCO BARESI -per sempre IL CAPITANO-




Quando sentiamo qualche anziano citare, con gli occhi che brillano di nostalgia, i mitici anni sessanta, anche a noi nelle cui vene scorre sangue rossonero, il cuore si annoda un po. Non è per l'economia fiorente, né per le belle canzoni di amore assoluto e nemmeno per gli stabilimenti balneari o per la rivolta del '68. La spiegazione è più semplice: negli anni sessanta, più precisamente l' 8 maggio del 1960, a Travagliato in provincia di Brescia, nasce colui che diverrà il più grande difensore di tutti i tempi: Franchino (detto Franco) Baresi. Le ginocchia sbucciate, il carattere chiuso dalla timidezza e i tanti palloni forati durante i lunghissimi pomeriggi di luglio, passati interamente a giocare a calcio assieme ai fratelli Angelo e Beppe, fanno parte dell'infanzia del trio più temuto (in chiave calcistica) della zona. Tutti sanno che “la squadra dei Baresi” è praticamente imbattibile e lo scopre anche il Milan, giunta per disputare un'amichevole tra selezioni giovanili contro l'Unione Sportiva Oratorio Travagliato e sconfitta per 4 a 0. Il merito è anche di Guido Settembrino, l'allenatore della squadra che propone a Beppe Baresi, il mezzano, di sostenere un provino per l'Inter. La famiglia ha radici rossonere ma di fronte alla grande occasione nessuno pone ostacoli e Beppe diventa un giocatore nerazzurro. Dopo la morte della madre, Franco si chiude in se stesso. Il dolore e la perdita dell'appetito lo rendono fragile e gracilino. Ad un provino per raggiungere il fratello Beppe nelle fila dell'Inter, viene “scartato” proprio per le caratteristiche fisiche poco convincenti. Presente alla prova però c'è Italo Galbiati, colpito dalla sua destrezza e dal piede "buono". Italo sta per passare al Milan nello staff tecnico e offre a Franco una seconda occasione, questa volta nei rossoneri. E' così che nasce un'epoca. La storia del club viene riscritta nel momento in cui Francesco Zagatti (sempre sia lodato) lo “arruola” nelle file del Milan. Franco inizia ad impegnarsi sul campo e nello studio. Durante il torneo di Viareggio del 1977 mostra doti da grande difensore e Gianni Rivera, l'idolo di Franco, dedica a lui, in un'intervista, splendide parole. Purtroppo un'altra tragedia colpisce la famiglia dei Baresi quando Terzo, il padre, viene investito da un'automobile e perde la vita. I tre fratelli e Lucia, la sorella maggiore si riuniscono nel dolore. La voglia di ribellarsi ad un destino beffardo e crudele “corazza” Baresi che in campo scarica tutta la sua rabbia distinguendosi per grinta e tenacia. Lanciato da  Nils Liedholm giovanissimo in prima squadra nel 1977, diventa ben presto il più amato dalla curva e una pedina fondamentale per la difesa rossonera. Nella sua seconda stagione, Franco, guida la retroguardia del Milan con la sicurezza e l'abilità di un veterano alla conquista del decimo scudetto, quello della stella. Sembra una coincidenza banale ma una stella è davvero spuntata sul "tappeto" di San Siro. Purtroppo anche il calcio gioca però un brutto tiro al giovane rossonero. Verso la fine del campionato 1979-1980, scoppia lo scandalo delle scommesse clandestine che coinvolge  alcuni tesserati del Milan. La squadra viene retrocessa all'ultimo posto e quindi in serie B. All'Inter convincono Collovati ad unirsi a loro ma il tentativo di strappare ai rossoneri anche il neocapitano Baresi fallisce per il secco rifiuto del “piscinin”. Il Milan fatica a rilanciarsi e dopo la brillante risalita segue un'altra retrocessione e poi un periodo di “purgatorio” fino all'arrivo di Arrigo Sacchi nel 1987, momento decisivo nella carriera del capitano che si trova a dirigere la difesa nella innovativa strategia del fuorigioco. I rossoneri incantano l'Europa con una serie di amichevoli di lusso e dopo aver festeggiato in Italia la conquista dell'undicesimo scudetto, dominano per due anni consecutivi la coppa dei Campioni. Per tutti, il numero 6 è Baresi, un leader, un esempio, una bandiera. La difesa del Milan diviene leggendaria. Accanto a lui, si dice, chiunque farebbe bella figura. Maldini, Costacurta, Galli e Tassotti lo affiancano. Mattoni di un muro che fatica a vacillare. Giocare contro quel Milan scoraggia gli avversari come quando nel Risiko ti trovi con un paio di carrarmatini ad attaccare una nazione con due bandierine. Spesso, nei servizi televisivi di 90° minuto (programma RAI del tempo), ai tifosi avversari non resta nemmeno la soddisfazione di vedere una sola azione della propria squadra del cuore. Il passaggio del Milan da Sacchi a Capello nel 1991, porta alla retroguardia accorgimenti particolari e la difesa rossonera batte il record del minore numero di gol subiti, vincendo quattro scudetti e una coppa dei Campioni. Al capitano sfuggono per un soffio il pallone d'oro (che meriterebbe) e la conquista del campionato mondiale di USA '94 nella bollente finale contro il Brasile, da lui giocata appena 20 giorni dopo l'operazione al menisco e conclusasi amaramente con una sconfitta ai calci di rigore. Le lacrime di Franco sono di quelle che sciolgono i cuori ma nessuno gli fa pesare l'errore dal dischetto perchè, non c'è alcun dubbio che lui abbia dato il massimo per i colori della nazionale. L'ultimo suo campionato è strano. Il Milan campione d'Italia si affloscia e incassa gol da tutti. La squadra termina a metà classifica e Baresi, saluta il proprio pubblico nella partita contro il Cagliari. Non rientra nei programmi del Capello-bis ma la curva sud è con lui e quel giorno, uno striscione lungo tutto il settore blu, riporta la scritta “RESTA CON NOI”. Il capitano lascia la squadra dopo un ventennio di gloria e grandi successi. Il numero 6 viene ritirato a vita. Nessuno indosserà più la maglia che è e sarà sempre di Franco Baresi. La fascia di capitano passa a Maldini ma resterà tatuata a vita sul suo cuore. Il suo palmares a fine carriera è incredibile: 6 scudetti, 4 Supercoppe Italiane, 3 Coppe dei Campioni, 3 Supercoppe Europee, 2 Coppe Intercontinentali, 1 Mitropa (giusto comunque citarla visto che il capitano mise a segno due gol nel match decisivo contro l'Haladas) e 1 Campionato del Mondo in Spagna nel 1982 (da riserva di Scirea). Viene da sorridere al pensiero che nonostante quelle spalle definite da “qualcuno” così mingherline, si sia fatto i muscoli sollevando coppe al cielo.  Le belle parole spese per lui da Gianni Brera, ne sottolineano l'aspetto tecnico e atletico: «Baresi  è dotato di uno stile unico, prepotente, imperioso, talora spietato. Si getta sul pallone come una belva: e se per un caso dannato non lo coglie, salvi il buon Dio chi ne è in possesso! Esce dopo un anticipo atteggiandosi a mosse di virile bellezza gladiatoria. Stacca bene, comanda meglio in regia: avanza in una sequenza di falcate non meno piacenti che energiche: avesse anche la legnata del gol, sarebbe il massimo mai visto sulla terra». In realtà, qualche soddisfazione, il “piscinin” se la è tolta anche in avanti. Grande realizzatore di calci di rigore, ha segnato anche reti pesanti grazie alle sue storiche sgroppate. In pochi sanno che tra i suoi titoli individuali c'è quello di capocannoniere nella Coppa Italia del 1990 con 4 reti (tutte su calcio di rigore). Ora Baresi è lontano dal campo, vive la vita con la moglie Maura e i figli. Per chi ha vissuto la sua passione sportiva  nel periodo di Kaiser Franz (soprannome dovuto all'eredità affibbiatagli dai tifosi per le caratteristiche comuni con il grande Beckenbauer), ci sarà sempre un posto d'onore per lui nei ricordi di quegli anni in cui usciva palla al piede incendiando lo stadio e tutti cantavano a squarciagola “Franco Baresi c'è solo un Franco Baresi! Il capitano , c'è solo il capitano!”
                                                                              

                                                                          Enrico Bonifazi   (pubblicato su DNA Milan)

mercoledì 19 aprile 2017

About "MANCHESTER BY THE SEA"




Tutto è effimero, anche l'apparente certezza di ciò che siamo nel mondo. Lee (Casey Affleck) vive a Boston e lavora come tuttofare in un vastissimo complesso condominiale; stucca le pareti, sgorga gli scarichi intasati, si "sciroppa" i piccoli problemi degli inquilini e lo fa con indifferenza e menefreghismo con il solo intento di far scorrere più velocemente un giorno dopo l'altro. Lee è un uomo in fase di stallo, una sorta di "dead man walking" senza la forza (e/o la voglia) di tornare a vivere. Le sue giornate si susseguono così, fino al giorno in cui gli viene comunicata l'avvenuta morte del fratello Joe, a causa di un arresto cardiaco. Il triste avvenimento lo porta a tornare nella piccola Manchester, città gelida e marittima nella quale un tempo è vissuto felice, dove un cielo di piombo forma spesso un tuttuno col mare e le principali attività sono pesca e navigazione. Tornando, Lee dovrà fare i conti con il passato e assumersi responsabilità alle quali ha scelto di disabituarsi. Una storia toccante, da assimilare piano piano, così come il regista Kenneth Lonergan ha scelto di offrirla a noi spettatori, con un accurato utilizzo del flash-back, per mettere a nudo ogni piccolo dettaglio e rivelare quali avvenimenti hanno reso Lee, l'uomo disconnesso dalla vita che è oggi. Proprio la strategia dei salti temporali impedisce di focalizzare la vicenda più nel dettaglio, senza rischiare di "guastarne" la visione. Non posso far altro che applaudire i protagonisti (su tutti Affleck e Michelle Williams), davvero coinvolgenti ed espressivi ad eccezione forse del giovane Lucas Hedges che mi ha lasciato perplesso in un paio di passaggi. Senza respiro ho assistito al palesarsi del dramma, mentre le note dell'Adagio in Sol minore di Remo Giazotto facevano breccia nel mio cuore e "forzavano" le ghiandole lacrimali. Condivido pienamente i numerosi riconoscimenti (tra i quali tre premi Oscar) ottenuti dal film. Una storia che parla di quella redenzione che non viene cercata perché arrivi a porre fine alla sofferenza, ma di quella alla quale, ormai, si è indifferenti, poiché accettare uno sbaglio (umano), non è comunque rimuoverne le conseguenze. Bellissimo spaccato di vita che mostra quanto sia sottile l'equilibrio delle cose e quanto breve sia la distanza che separa le gioie e i drammi della vita. Applausi sinceri da parte mia.


                                                                             Enrico Bonifazi   (Cinerubik)

sabato 25 febbraio 2017

About "LA LA LAND"




Sembrava difficile divincolarmi dall'istinto bastiancontrario che si contrappone alle innumerevoli acclamazioni ricevute da La La Land e dai "non puoi non andare a vederlo!" ai quali amici e media mi hanno sottoposto quotidianamente per settimane. Una volta trovate le energie per "svestirmi" da questa crosta fatta di ostilità c'è stato solo da guadagnare.
La La Land è un'ondata che ti scaraventa al suolo e ti trascina al largo con la sua risacca ma che riesce a metterti in agio e a cullarti insegnandoti dolcemente a cavalcarne la forza comunicativa. Un film, dicevo, che ho iniziato ad amare mentre ancora ero intento a scrollarmi di dosso l'uragano di aspettative che ne ha accompagnata l'uscita. Scorrono ancora i titoli di testa quando il regista Damien Chazelle (noto soprattutto per il jazzistico WHIPLASH) affondando il pennello nel grottesco intrinseco dal quale un musical non può prescindere, tramuta un ingorgo stradale in una coreografia che è un inno alla speranza e alla convinzione di farcela perché i veri sogni non implicano il sonno, a loro è sufficiente "Another day of Sun". Apparentemente sono le stagioni a scandire i tempi del film con didascalie (autunno, inverno, primavera, estate) che marcano i capitoli della storia di Mia Doland (EMMA STONE) e Sebastian Wilder (RYAN GOSLING) ma nel concreto a farlo sono i loro sogni. Non si tratta del desiderio di ricchezza che sempre s'intende come "il sogno americano" ma di qualcosa di intimamente legato alla loro arte (lei aspirante attrice e lui musicista deciso a salvare il jazz), un sogno dell'anima, come rivelano i due protagonisti attraverso i ricordi del loro passato ben "confezionati" in raffinati dialoghi alternati (con coinvolgenti tempistiche) ad eleganti (e quasi fatati) balletti. Il sogno però ti porta a volare e cadere bruscamente e SEMPRE impone scelte e sacrifici. Ogni musical in fondo è il cilindro di un prestigiatore e tutto trova spazio; nulla viene sottratto alla credibilità anche se vedi spuntare magicamente scarpe jazz-style dalla borsa di Mia che prontamente le calza dando vita, insieme a Sebastian, ad un passo a due sotto la volta stellata di Los Angeles sul tornante panoramico che porta ad Hollywood. La colonna sonora ricalca alcuni stereotipi del musical classico, con arrangiamenti ispirati al passato, ma sa distinguersi grazie ad alcuni tocchi magistrali e gli stacchi di jazz.
È un film che racconta di un amore, certo (niente di speciale diranno molti) ma quando l'amore è credere più nel sogno dell'altro che nel proprio (reciprocamente), quanto è grande!
Gli occhi della Stone comunicano e gorgheggiano al pari della sua voce (recentemente l'attrice ha esordito a Broadway ma fin da piccola il musical le ha dato un imprinting) introducendo gli spettatori all'interno dell'anima (assai più complessa di quanto argomento e trama lascino trasparire) del film. I sogni, in generale, devono però fare i conti con il risveglio e la felicità è semplicemente l'esser felici e non l'aver ottenuto tutto.
Gosling (bravissimo anche lui) si conferma un grande musicista nonché validissimo "ambasciatore" dell'amore per il Jazz (attraverso il suo personaggio) che sappiamo appartenere a Chazelle; le sue dita premute sul pianoforte "aprono il forziere" dando vita alla sequenza quasi empirica, che gonfia il petto e le ghiandole lacrimali quasi a sturare i condotti dei più solidi "non sentimentali" e che conduce verso il finale del film; ed io, romantico solo qualche volta, mi lascio invadere vista e udito da un valzer che in un certo senso sembra "riconoscere" tutti noi in sala e al quale siamo riconoscenti. Scorrono sullo schermo le immagini di una realtà parallela con colori e suoni simili al gran finale di uno spettacolo di fuochi d'artificio. Una raffica di bellezza che abbiamo l'onore di vederci e sentirci piovere addosso e (sentimento comune ad ogni spettacolo gradito) si teme il momento in cui il finale arriverà davvero, proprio come quando il cannone del fuochista spara per la terza volta e rimane soltanto il cielo buio. Restano la magnificenza e una leggera malinconia per qualcosa che non si potrà più vedere per la prima volta.
La La Land è un capolavoro che verrà celebrato per decenni e io l'ho amato così tanto da provare una profonda gratitudine, sensazione che solo l'arte (l'arte VERA) riesce a regalarmi.

                                                                                                      Enrico Bonifazi (cinerubik)