mercoledì 29 aprile 2020

About "PARASITE"






Non vorrei apparire bastian contrario frustrato (credetemi, non lo sono affatto) nell'esternare la mia parziale delusione allo scorrere dei titoli di coda di Parasite, diretto da Bong Joon-ho. Quattro statuette vinte agli Oscar 2020 (primo film in lingua non inglese a vincere come miglior film), la Palma d'oro a Cannes e migliaia di recensioni (Rotten Tomatoes, MYmovies, Ciak, ecc.) che palesano entusiasmo e apprezzamenti, non sono state sufficienti a conquistarmi. Prima che (come uno dei protagonisti del film) vi armiate di pietroni per lapidare il mio parere, ci tengo a sottolineare che non si tratta certo di un brutto film ma (mio modesto parere) non di quell'opera d'arte capace di destare, nei più, concupiscenza. Le sfumature nel cinema (non intendo quelle di grigio) hanno importanza e non sono solito etichettare un lungometraggio semplicemente come "gran film" o "spazzatura" senza vie di mezzo e (soprattutto) senza argomentare.

Partendo dunque da una rispolverata della trama, vado ad enumerare ciò che non mi ha convinto.
Si narrano le vicende dei Kim, famiglia sudcoreana (marito, moglie, figlio e figlia), costretti dalla disoccupazione a vivere per mezzo di un misero sussidio e qualche espediente (dal confezionare scatole per la pizza allo "scrocco" del wi-fi ai vicini) in uno scantinato umido e maleodorante. I due ragazzi (ottime menti) sono stati costretti a lasciare gli studi per l'indigenza ma la famiglia appare molto unita e legata da grande affetto. Un giorno, il maggiore dei figli, Ki-Woo, viene raccomandato da un amico per sostituirlo come insegnante di inglese presso i Park, una famiglia molto agiata composta da padre, madre, figlia adolescente e un bambino in età elementare. Alle dipendenze dei coniugi Park ci sono una governante e un giovane autista. Questo fa nascere nello scaltro Ki-Woo un'idea: nascondendo i legami di parentela coi suoi genitori, cercherà di farli assumere dopo aver fatto licenziare (con biasimevoli mezzi) i due inservienti, presentando inoltre la sorella (fingendola estranea) come un'esperta di arteterapia, perfetta per coltivare la passione per il disegno del piccolo Da-song.
Senza spoilerare, il film non è altro che un confronto fra ceti sociali ridondante di stereotipi dove ci si chiede continuamente se i "nodi" verranno o meno al "pettine". Un paio di scene suggestive, un discreto colpo di scena e una buona regia sono invece i pregi di questo pluripremiato film.

Apparentemente nulla di nuovo sul fronte "orientale" quindi, se si pensa che solo un anno prima, il bellissimo film giapponese "Un affare di famiglia" di Kore'eda Hirokazu, narrava proprio le "imprese" di un nucleo molto simile a quello dei Kim, continuamente a caccia di un piccolo "bottino" o di persone da raggirare ma tutte molto legate affettivamente tra loro. Inoltre, verso la fine degli anni novanta, il cinema giapponese con il celebre "Hong-Kong Express" e proprio quello sudcoreano, con "Ferro 3" (solo per fare due titoli ma la scelta è ampia) avevano già proposto sceneggiature riguardanti persone insinuate in case d'altri all'insaputa dei proprietari.
Ma veniamo alla domanda che sgorga spontanea quando si parla di un film come Parasite, per il quale il "vento" della critica entusiastica drappeggia compiaciuto la bandiera della "lotta di classe": Cosa s'intende per lotta di classe? Al giorno d'oggi non è certo quella "fisica" dei Greasers della 56a strada contro i Socials. Per alcuni è sfrecciare per la strada guidando una Ferrari, per altri è imbrattare i muri inneggiando la "morte" delle banche e dei "poteri forti", per altri ancora è sorseggiare un calice di Barolo con aria da intenditore e nondimeno lo è l'ostentazione della propria anarchia.
In questo film, il conflitto sociale è interamente racchiuso nell'odore della povertà, così inavvertito da chi ci sguazza dentro ma talmente insopportabile per chi non ne è avvezzo. "Hai presente l'odore che si diffonde quando fai bollire uno straccio sporco?" domanda il signor Park alla sua raffinata consorte. Quell'odore che soltanto il piccolo Da-song (con lo stesso coraggio sfacciato del fanciullo della favola che urla: "l'imperatore è nudo come un verme") definisce col suo nome: "puzza".

Mentre i coniugi Park, ligi al gioco delle parti, quell'odor di miseria lo menzionano con ipocrisia, convinti dell'assenza di orecchie indiscrete (che invece paiono essere ovunque). Ma non è la povertà a far da "etichetta" alla famiglia Kim, meno "parassita" di quanto dice il titolo (anche se in modo perverso, lavorano) e assai più canaglia.

I quattro impostori non calano la "maschera" dell'identità ma sanno rivelarsi per quel che sono dentro: arrivisti irriguardosi di coloro che "schiacciano" durante la loro scalata e assai poco magnanimi con chi elemosina pietà dal basso (che conoscono bene). Poveri sì, ma non di quattrini: di umanità. "Se fossi ricca sarei gentile" sostiene la signora Kim poco prima che le si presenti l'occasione (vana) di dimostrarlo.
E i ricchi? I ricchi, nella fattispecie i signori Park, non sono altro che la caricatura di creduloni fatti apposta per essere gabbati. Gente che rimpiazza collaboratori come soprammobili e si porta in casa chicchessia senza verificarne le credenziali. Sono le "vittime", i buggerati, eppure non viene da commiserarli. E siccome siamo in un blockbuster coreano (vi prego, il termine "film d'autore" non lo scomodiamo per questa guitta commedia pop-fusion) eccola lì, puntuale, la solita scena di sesso non funzionale alla trama, a "coronare" una sequenza fastidiosa coi soliti "intrusi" rannicchiati nei pressi, manco fossimo in un episodio di Friends.
Un blockbuster senza sangue? Direte voi. Il sangue arriva, state tranquilli, a dare forse quell'unico guizzo d'imprevedibilità di cui il film è davvero capace. In un crescendo di azione abietta contro reazione ancora più abietta, "Parasite" regala una ventina di minuti di livello quando le mentite spoglie di mediocre commedia "partoriscono" un ottimo thrilling.
Qualche emozione, qualche sussulto e un pizzico di sospensione della credibilità (segnali morse... ma dai!) in un finale comunque ben strutturato.

Mentre ancora mi domando cosa abbiano colto in molti che io non sono bravo a percepire, penso che un premio vinto non sempre sia frutto di una grande espressione cinematografica (o sportiva o musicale che sia) ma anche conseguenza della mediocrità dei contendenti. Personalmente non ritengo il 2020 un grande anno, per ora. In tutti i sensi.





domenica 26 aprile 2020

About "THE LIGHTHOUSE"



Robert Eggers, già regista dell'esoterico "The Witch", firma il visionario e onirico  "The Lighthouse", film sui disagi della solitudine amplificata e sui sottili equilibri psichici dell'essere umano.
La vicenda si svolge interamente su di una (non meglio identificata) isoletta canadese dove, verso la fine del 1800, sbarca un giovane di nome Ephraim Winslow (Robert Pattinson) con l'incarico di coadiuvare il veterano e intransigente guardiano del faro Thomas Wake (Willem Dafoe). I due, da consegna, resteranno isolati dalla terraferma per due settimane. La convivenza risulta da subito complicata nonostante l'abnegazione di Ephraim e il suo rispetto (a denti stretti) delle severe direttive impartitegli. Ha inizio tra i due un'alternanza disordinata di silenzio e sproloquio, armonia e intolleranza. Gli equilibri (e i nervi) del ragazzo vengono costantemente messi alla prova dall'isolamento e dai compiti degradanti come svuotare entrambi i pitali, sgorgare il pozzo delle acque putride o trascinare per chilometri una carriola sovraccarica di carbone lungo una strada sassosa e impervia. Soprattutto il perentorio divieto di avvicinarsi alla cima del faro, imposto da Wake al suo subalterno, viene maldigerito e sarà ciclicamente causa di conflitto.
Il giovane, barricato dietro la propria tenebrosa reticenza, osserva perplesso la bizzarra "relazione" feticistica che sembra legare il guardiano alla luce del faro e, in una spirale di "panico", visioni, onanismo, superstizione (galeotta fu l'uccisione di un gabbiano) e alcool, perde progressivamente la capacità di raziocinio, divorato dal desiderio irrefrenabile di raggiungere proprio quella luce interdetta.
Aragoste, teste mozzate, tentacoli, volatili guerci che reincarnano marinai defunti, baccalà rancido, donne con la coda di pesce e acqua al sapore di merda e piscio sono gli espedienti narrativi (sospesi tra tanto sogno e poca realtà) scelti da Eggers per trasporre questo racconto incompiuto di Edgar Allan Poe. Due "naufraghi" di poche parole brevi e taglienti che sanno diventare loquaci "lubrificando" i "condotti" sociali con superalcolici. La convivenza forzata di ognuno con l'altro e con il proprio io.
Una narrazione pretenziosa, una sciarada, un tuffo nel disagio grazie a un sonoro martellante, pioggia incessante e una sporcizia chiamata continuamente in causa, che conduce al geniale parallelo con il mito di Prometeo, colui che rubò il fuoco agli Dei per donarlo agli uomini (più per la macabra sanzione inflittagli da Zeus che per le analogie fra luce e fiamme).
È la nota storia della pallina che poggiata su un piano inclinato (non importa quanto) rotolerà sempre più velocemente verso il basso. Metafora che cinematograficamente, a simboleggiare un'inesorabile uscita di senno, sua maestà Stanley Kubrick rappresentò con un ascensore dell'Hoverlook Hotel in fase di discesa dalle cui porte sgorgavano ettolitri di sangue. Era la mente di Jack Torrance, piegata dalla stessa solitudine (nel film Shining).
Tanto più pesa il fardello che ci portiamo appresso, tanto più siamo deboli e fragili.
Eggers rinuncia ai colori freddi e ben "calibrati" usati in "The Witch" preferendo loro un bianco e nero dai marcati contrasti che rende nero e argenteo il mare nordico e "ammortizza" il disgusto per sangue, interiora ed escrementi. Personalmente ho ringraziato più volte col pensiero l'assenza di cromia. Il rapporto video (circa 4:3) è azzeccatissimo e trasmette quel pizzico di claustrofobia in più, tanto necessario quanto affascinante.
Applausi a scena aperta, quindi, per la fotografia (geniale e d'altri tempi) ma non dimentichiamoci delle interpretazioni degli attori, davvero bravi a comunicare prima col viso poi con le parole.
Una piccola perla di film, capace di farmi sentire "stranito" (ma forse il termine giusto sarebbe "freaked out", come dicono gli anglosassoni) in un periodo in cui troppe volte il cinema lascia indifferenti. Dopo la visione mi sono sentito come al terzo calice di vino assorbito via wi-fi ed è appunto dopo un bicchiere di buon rosso che ho deciso di scrivere queste righe (la sobrietà totale non ha voce in capitolo). "The Witch" mi lasciò perplesso; "The Lighthouse" mi ha lasciato perplesso ma appagato.
   

Enrico Bonifazi